L'allarme maremoto è finito nell'oceano sbagliato
di  Pietro Greco



Migliaia di vite umane potevano - e quindi dovevano - essere salvate, domenica scorsa lungo le coste dei paesi che affacciano sull'Oceano Indiano. Diamo una scorsa ai tempi in cui lo tsunami ha consumato la tragedia e capiremo perché.

Manca un minuto alle ore 7.00 di domenica 26 dicembre quando a dieci chilometri di profondità al largo delle isole Simeulue, a ovest dell'isola di Sumatra, avviene un terremoto di magnitudo 9,0 della scala Richter. Il sisma interessa una faglia di quasi 1.200 chilometri ed è così potente da spostare l'isola di Sumatra, grande tre volte l'Italia, di trenta metri in direzione sud-ovest. Il titanico e repentino spostamento di masse genera in mare una serie di onde anomale che iniziano a propagarsi a una velocità di oltre 500 chilometri al secondo in ogni direzione. Nel giro di pochi minuti il treno d'onda ha già raggiunto le coste settentrionali di Sumatra.

Quindici minuti dopo, a molte migliaia di chilometri di distanza, gli strumenti del Pacific Tsunami Warning Center di Honolulu, nelle Hawai, registrano il terremoto. Il direttore del centro, Charles McCreery, avvisa la dottoressa Laura S. L. Kong, responsabile dell'International Tsunami Information Center (Itic), che l'evento produrrà effetti anche nel Pacifico. L'Itic è un centro che afferisce alle Nazioni Unite, finanziato dagli Usa, che, fin dal 1965, ha il compito di informare i paesi e le popolazioni che affacciano sull'Oceano Pacifico sul rischio tsunami. Passano pochi minuti e la dottoressa Kong avverte i rappresentanti dei 26 paesi del network del Pacifico (incluse Thailandia e Indonesia) che nel giro di poche ora le coste delle isole Figji, del Cile e della California saranno interessate da una variazione del livello del mare di qualche centimetro.

Proprio mentre gli esperti di Honolulu affinano le loro conoscenze sull'evento sismico di Sumatra e persino le autorità del Cile vengono informate che le spiagge del loro paese saranno interessate da un'onda anomala di qualche centimetro, il treno generato dal sisma nell'Oceano Indiano si abbatte sulle coste occidentali di Sumatra con onde alte più di dieci metri. E un'ora dopo, alle otto del mattino, viaggiando a oltre 500 chilometri l'ora, raggiunge le coste della Thailandia. Passa ancora un'ora, e alle 9 del mattino, il treno d'onda raggiunge le coste più meridionali della Birmania. Tra la 9.30 e le 10 le onde anomale raggiungono lo Sri Lanka. Alle 10, tre ore dopo il sisma, il treno s'abbatte sulle Maldive e le coste orientali dell'India. Ancora un'ora, sono ormai le 11 del mattino, e il maremoto investe le coste occidentali del grande paese asiatico. Alle 12 tocca al Madagascar. E alle 13 - mentre in Italia il telegiornale già trasmette le prime immagini della catastrofe in Indonesia, Thailandia e Sri Lanka - le onde raggiungono la Somalia e la penisola arabica.
In questa sua veloce, ma non istantanea, cavalcata lo tsunami generato dal più grande terremoto avvenuto sulla Terra negli ultimi 40 anni, ha colto sempre del tutto impreparate le popolazioni costiere. Perché? Perché, mentre qualcuno già da tempo il Cile sapeva del sopraggiungere di un'onda anomala di qualche centimetro, nessuno in Indonesia, Thailandia, Malaysia, Birmania, Sri Lanka, India, Bangladesh, Maldive, Madagascar, Somalia, Yemen e Oman sapeva (e se sapeva, riusciva ad avvertire le popolazioni a rischio mortale) del sopraggiungere di onde anomale che, in prossimità della costa, si sarebbero inarcate anche oltre i dieci metri e avrebbero scaraventato sulla costa una quantità inimmaginabile di acqua?

La vicenda che abbiamo ricostruito dimostra che non tutto quanto è avvenuto domenica scorsa era ineluttabile. Che c'era tutto il tempo e c'erano tutte le informazioni utili a salvare le vite di decine di migliaia di persone, come hanno sostenuto - tra gli altri - Tad Murty, un esperto di tsunami in forze all'università canadese di Manitoba, e Brian Baptie, del servizio geologico britannico. Purtroppo quel tempo è stato speso male. E quelle informazioni non hanno trovato i canali di comunicazione giusti per risultare utili.
La realtà è che i paesi che affacciano sul Pacifico hanno fin dal 1965 un efficiente sistema di allarme tsunami, mentre i paesi che affacciano sull'Oceano Indiano - malgrado i ripetuti appelli degli esperti - non ne hanno mai allestito uno. E non lo hanno allestito per un motivo molto semplice: creare una rete di sensori sottomarini, di boe galleggianti, di satelliti, di computer che nel giro di pochi minuti rilevano la nascita di uno tsumani e ne calcolano potenza e direzione, è un'impresa costosa. E, creare un'organizzazione a terra che, in pochi minuti, trasmette le informazioni alle popolazioni interessate per metterle in salvo in centri di raccolta facilmente raggiungibili, è impresa difficoltosa. Nell'insieme le due imprese non sono alla portata di paesi poveri, che preferiscono investire i loro soldi non nella gestione di un rischio remoto, per quanto terribile, ma nella gestione dei rischi quotidiani.

Ma chi abita nei paesi poveri ha il medesimo diritto alla protezione di chi abita nei paesi ricchi. E allora, la vicenda di domenica dimostra che, forse, la strada migliore è quella di creare un sistema di protezione civile globale nell'ambito delle Nazioni Unite. Un sistema costituito da un centro scientifico in grado di gestire la rete di sensori e di lanciare prontamente l'allarme (si tratta, in pratica, di allargare le competenze del centro di Honolulu e istituire un World Tsunami Warning Center); da un centro di trasmissione delle informazioni (si tratta di allargare le competenze dell'Itic che è già dell'Onu); di creare nelle nazioni a rischio un'organizzazione tale da ricevere le informazioni e in pochi minuti avvertire in maniera capillare la popolazione per metterla in salvo.
Questo per quanto riguarda la protezione dagli tsunami. Ma il mondo è esposto a una serie di rischi globali o, comunque, che interessano grandi regioni. Conviene a tutti cercare di governare questi rischi (per esempio il rischio idrogeologico, esacerbato dall'aumento della temperatura media planetaria). Le Nazioni Unite già posseggono competenze, strutture scientifiche e tecniche che, se messe in rete e dotate di un minimo di finanziamento, possono costituire la prima colonna di un sistema di protezione civile globale. Capace, come fa in campo medico (con buoni frutti) l'Organizzazione Mondiale di Sanità, sia di lanciare con tempestività l'allarme, sia di intervenire in maniera tempestiva per gestire l'emergenza dopo che l'evento è accaduto. Compito al quale peraltro l'Onu, come vediamo in queste ore, già adempie. Le vite di decine migliaia di persone domenica scorsa potevano e, quindi, dovevano essere salvate. Che il loro sacrificio serva almeno a salvare altre innumerevoli vite in occasione delle prossime catastrofi naturali.