La tortura viene con la guerra

di  Enzo Mazzi


È nauseante questa ipocrita rincorsa a chi sapeva meno. Tutti sapevano delle torture.

Sì, la soldatessa Lyndie England che tiene il prigioniero al guinzaglio e altre aberrazioni del genere potevano anche sfuggire ai massimi responsabili degli stati belligeranti. Ma sono particolari.

La sostanza è che la tortura era ed è pianificata lasciando le modalità alla creatività dei torturatori, alle razioni delle vittime e alle esigenze del momento.

Ed ecco il guinzaglio. Sennò perché i torturatori di Abu Ghraib consentivano di essere ritratti in atteggiamento di trionfo? Sapevano di fare il loro dovere e di farlo bene. Le stesse foto erano richieste dalle procedure come strumenti di tortura e di intimidazione da usare per «azioni psicologiche», così ha detto la soldatessa del guinzaglio.

È deviante la stessa campagna mediatica. Essa è orchestrata per puntare almeno a due obiettivi: riproporre ossessivamente le immagini orride di Abu Ghraib in modo da ingenerare nell’opinione pubblica un senso di assuefazione e un bisogno di evadere da un argomento altamente ansiogeno; puntare tutta l’attenzione su quei particolari, su quelle foto, su quelle scene e quegli episodi di tortura, in modo da circoscrivere il fenomeno, oscurare la sistematicità della tortura e impedire che l’orrore si propaghi al sistema stesso della guerra.

Oscurare ad esempio: il sistematico addestramento dei torturatori nella «Scuola delle Americhe», ubicata prima in Panama, poi a Forte Benning, in Georgia, dove si insegna a sequestrare e torturare, così come risulta in un preciso «Manuale»; la tortura praticata nel lager di Guantanamo; la tortura dell’assedio di Falluja; la tortura dei bombardamenti sull’Iraq mai realmente interrotti dal 1990 ad oggi, che hanno distrutto abitazioni, scuole, ospedali, acquedotti, comunicazioni, servizi, hanno devastato intere città, hanno prodotto migliaia di vittime civili, donne, bambini, lasciando una scia immane di sofferenze in decine di migliaia di invalidi, diffondendo uranio impoverito sulla popolazione, causando tumori e avvelenando l’aria in una percentuale mai raggiunta al mondo; la stessa tortura già inflitta a intere popolazioni inermi con i bombardamenti in Jugoslavia e in Afghanistan.

Nel novembre del 2002, cinquemila talebani furono rinchiusi in contenitori blindati e trasportati a Sheberghan. Più di mille morirono asfissiati, gli altri furono mitragliati dall’Alleanza del Nord, in presenza dei soldati nordamericani che pure parteciparono alla «mattanza», «fu decapitato un prigioniero e fu versato acido sulla testa degli altri» (lo scrive Ramonet su El Pais, 4.9.2002).
E allora diciamolo: la guerra è in sé stessa un grande orrido tragico sistema di tortura. Tortura per le vittime ma in un certo senso tortura anche per coloro che la praticano. È emblematica la pazzia e il suicidio del pilota che sganciò la bomba atomica su Hiroshima.

Il mondo va liberato dalla guerra e dalla cultura di guerra. Ed è quello che sta facendo il movimento pacifista. L’ampiezza e la profondità dell’attuale movimento di opposizione alla guerra può avere conseguenze storiche sulle nostre culture. Può condurre finalmente al compimento del processo storico che portò da Cesare Beccaria alla Carta fondamentale dell’Unione Europea. Perché non basta condannare la tortura. Bisogna sradicarla.

Il pacifismo è oggi la punta più avanzata di quel processo. I suoi traguardi non sono mai segnati solo dalle contingenze. Oggi il nostro obiettivo è fermare questa guerra da incubo. Su questo siamo determinati e concentriamo tutti gli sforzi. Ma la nostra stella polare è oltre. Duemilacinquecento anni fa la indicò il profeta Isaia: la giustizia cingerà i popoli, fonderanno le spade e ne faranno aratri, il lupo dimorerà presso l’agnello e un bambino lattante giocherà nel covo dell’aspide.

Dove ha attinto questa lucida visione profetica? Dalla saggezza dei secoli alimentata da una spinta vitale proveniente dal Dna della specie. È la stessa saggezza a cui il Vangelo ha attinto il suo messaggio esenziale: la pace in terra bisogna volerla (pace in terra agli uomini di buona volontà) perché sono felici e produttori di felicità i figli di Dio costruttori di pace e bisogna volerla fino ad amare i propri nemici (beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio). È a questo messaggio che sta tornando finalmente in massa, così almeno sembra, quella stessa cultura cattolica che tante volte nella Storia anche recente purtroppo da quello stesso messaggio si era disastrosamente allontanata.

La pace è impressa nel nostro profondo e forse nel profondo stesso dell’universo. La pace è la stoffa di cui è fatta tutta la realtà. La pace è l’orma profonda del cammino umano, contro ogni apparenza contraria.

Qualcuno chiama in causa il dono di Dio. Ci sto anch’io e con forza, purché quando si dice dono di Dio non s’intenda un dono dall’alto di un Dio onnipotente che obiettivamente deresponsabilizza lo sforzo umano. Siamo in molti ormai a pensare Dio in modo nuovo, fuori dall’orizzonte culturale dell’onnipotenza, della fissità trascendentale, del tipo di religione che si pone come unica depositaria del senso della esistenza umana e cosmica. È bello pensare la pace come dono e non come posseso di cui possiamo disporre, come dono prezioso che ci è affidato insieme alla vita. È fecondo considerare la pace come compito di responsabilità che ci sta sempre davanti, come obiettivo sempre più grande di tutte le nostre conquiste storiche che però di tali conquiste si avvale.

Dall’opposizione a questa guerra per motivi contingenti noi puntiamo all’ambizioso ma urgente traguardo della opposizione a qualsiasi guerra.

È il superamento della guerra come sistema che ci interessa. La guerra è da bandire perché crea vittime ma anche perché soffoca la vita dell’intero pianeta in quanto sistema e divora l’esistenza anche quando non dà spettacolo di orrendi massacri e di torture inaudite. La guerra è da bandire come cultura di dominio: il dominio del Nord verso il resto del pianeta. La guerra è da bandire come motore dello sviluppo e della ricchezza delle nazioni ricche e insieme come generatrice di povertà e fame. Il sistema guerra penetra e inquina tutti i sistemi economici, culturali e anche religiosi. Bisogna disinquinare le nostre culture e le nostre religioni. Questo è vero un po’ da sempre. Ma oggi, nell’epoca delle armi atomiche, cimiche e batteriologiche l’utopia di Isaia è l’unica razionalità rimasta in piedi. La razionalità della guerra, che un tempo poteva avere qualche senso, è divenuta ormai follia pura. È follia non solo scatenare la guerra ma lo stesso pensare la guerra, preparare la guerra, tenere negli arsenali militari armi capaci di distruggere centinaia di volte la faccia della terra.

Di fronte a tutto questo non ci sono alternative se non una profonda trasformazione culturale. È la pace come cultura e come sistema che ci interessa. Vogliamo che la giustizia ravvolga la terra, che le lance siano fuse per fare aratri, che il lupo possa dimorare presso l’agnello, vogliamo che i nostri bambini lattanti possano giocare nel covo della vipera. Non lo sogniamo, lo vogliamo. Per questo stiamo impegnandoci ogni giorno cercando di costruire un nuovo mondo possibile, per questo stiamo lottando contro la guerra. Solo così si può farla finita con la tortura e forse con lo stesso terrorismo.

Enzo Mazzi è parroco della comunità di base dell’Isolotto, Firenze